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Seconda tappa del viaggio in Palestina

La seconda parte del racconto scritto dal presidente del Circolo ARCI Barberino, Pietro Cardelli, all’indomani del viaggio della delegazione di ARCI Firenze (composta, oltre che da lui, dal presidente Jacopo Forconi, dal referente per le attività di Solidarietà Internazionale Manfredi Lo Sauro e dalla consigliera del Circolino ARCI Semifonte, Enrica Berti) in visita nei territori palestinesi dove il Comitato ARCI Firenze ha attivi i progetti di solidarietà internazionale Terra è Libertà e Teatro in campo.
In questa seconda parte, la visita a Ramallah, al villaggio di Beit Doqu e alla cooperativa agricola Beit Doqu Development Society, dove ARCI Firenze sostiene il progetto Terra è Libertà.

Ramallah

Oltrepassiamo il check-point di Qualandiya senza troppi problemi; non ci fanno neppure scendere dal bus. Siamo in Palestina, o meglio, nel territorio teoricamente sotto la giurisdizione dell’Autorità Palestinese, e siamo diretti a Ramallah, la capitale amministrativa. Welcome to Palestine! – ci dice un tassista, mentre gli altri gridano in quella che dovrebbe essere la stazione dei bus. Qui scendiamo in attesa di Ikrema, fondatore e presidente della Beit Doqu Develoment Society, il nostro partner in Palestina, e facciamo due passi lungo la via principale. Regna un caos percepito come quotidiano e ogni tassista grida più forte del vicino. La strada che percorriamo è pervasa di auto e di bus, immobili nella fila uniforme.
Se uscire da Israele è tutto sommato semplice, rientrarci crea vari problemi.

Sui muri di Ramallah si ripetono le immagini dei martiri palestinesi, circondati da scritte in arabo marchiate di nero e di rosso. Nella piazza principale – una sorta di rotonda circondata da locali e negozi che riprendono e imitano le marche occidentali – svetta la bandiera palestinese, mentre ai lati – legate ai pali della luce – emergono quelle gialle di Fatah e quelle rosse del FPLP – Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina.

Ramallah, attorno al quartiere antico, è un’immensa moltitudine di palazzi in costruzione, scheletri giganteschi in rovina prima ancora di essere completati, già diseredati, incompiuti. Vuoti che difficilmente si riempiranno. In ognuno lavorano forse due o tre operai: troppo pochi per stabilire una data di compimento dell’edificio, troppo soli per pensare che davvero stiano lavorando in vista di un obiettivo. Sulla strada cade la polvere provocata dalle perforazioni dei trapani e dai colpi dei martelli. Non ci sono impalcature: gli operai lavorano a strapiombo sul vuoto.

Ikrema ci viene a prendere alla stazione dei bus e insieme andiamo a fare colazione con humus e falafel nella città vecchia di Ramallah. Dai suoi silenzi composti e dignitosi capiamo che qualcosa lo turba, ma scopriremo solo durante e dopo il pranzo, i motivi della sua preoccupazione.

Beit Doqu Development Society

Nel frattempo arriviamo a Beit Doqu, un villaggio circondato: su tre lati, le colonie illegali israeliane e, sul quarto, il Muro di Separazione. Gerusalemme, in linea d’aria a 10-15 km, si fa lontanissima, un miraggio se consideriamo che gran parte degli abitanti del paese sono interdetti dalla Città Santa ormai da molti anni.
Ogni gesto che qui le persone compiono è considerato un attentato alla pace. Quale pace?
Beit Doqu si trova in una porzione di territorio ottima per l’agricoltura e l’allevamento, un territorio collinare adatto alla vite e al pascolo. A saperlo per primi sono gli israeliani, che tramite la costruzione delle colonie, la legislazione illegale e le incursioni della polizia, mirano a far allontanare i palestinesi da queste zone, così da inglobarle nel proprio Stato. Il nostro progetto – Land is Freedom. Part II – mira a rafforzare il sistema agricolo e caseario del villaggio, così da garantire autonomia economica e lavorativa ai palestinesi. Tramite i nostri aiuti, Ikrema e gli altri sono riusciti a dar vita ad un vasto sistema di terrazzamenti, facilitando così la coltivazione della vite e degli ulivi, e si stanno accingendo ad aprire una struttura per la produzione del latte, del formaggio e dello yogurt.

Restare significa resistere.

Le colonie illegali israeliane sono un branco di iene, un pullulare di occhi, una presenza costante e ineludibile, giorno e notte, sempre più ampia, sempre più interna. Mentre raggiungiamo Beit Doqu le vediamo, appostate come falchi tutto intorno al paese palestinese, a strapiombo sulle colline, incombenti e minacciose sulla strada dove ci muoviamo. Una bypass-road, ossia una via protetta da mura e filo spinato percorribile solo dai coloni, collega le abitazioni israeliane a Gerusalemme. L’impressione è quella di un territorio lacerato a forza di costruzioni illegali, strade che perforano le colline, centri urbani in continua espansione. La violenza, che a Gerusalemme si percepisce nell’aria ma che è sotterranea e che si manifesta in rapidi e improvvisi barlumi, qui è materiale concreto, mattoni e cemento, coloni che camminano con in mano i fucili.

Ikrema ci conduce alla sede della BDDS – Beit Doqu Development Society, che oltre a raccogliere i fondi e a organizzare il lavoro della comunità, è pressoché l’unica autorità del villaggio e fino a pochi anni fa svolgeva anche funzioni politiche. Nello stesso condominio della BDDS si trovano anche una Cooperativa di donne che produce orecchini, collane e altri oggetti, e un’altra che si occupa dell’esportazione e della distribuzione dei beni prodotti a Beit Doqu, spesso in accordo con altri paesi arabi.

Dopo aver visitato le attività agricole e casearie nate con i nostri finanziamenti, Ikrema ci conduce tutti a pranzo alla sua casa, poche stanze sul limine delle colline palestinesi circondate da bandiere di Fatah. Le mura del quartiere sono tappezzate dai volti di chi è morto per la causa. Una fotografia gigantesca di un giovane, troppo giovane, ricopre le abitazioni circostanti.

A tavola mangiamo con un po’ di agitazione silenziosa. I discorsi in arabo si mischiano a quelli in italiano, e di tanto in tanto l’inglese, così inopportuno, tenta di ricomporre un’unità frammentata. Ci raccontano con compostezza e con poche parole di tutti gli arresti dei mesi scorsi: gli israeliani hanno portato via trentacinque ragazzi palestinesi, fra cui i due figli, uno di diciannove e uno di ventidue anni, di Ikrema. Lì abbiamo una prima spiegazione dei suoi silenzi all’aeroporto.
Si discute poi del cibo, si continua a offrire, a servire, ad aggiungere piatti alla tavola ormai stracolma.
Mi colpisce che si beva solo a conclusione del pasto.

Le donne sono nascoste: non si vedono.
Si sentono però i rumori delle stoviglie nel lavandino, di chi tenta di scrostare le padelle o di allestire l’ultimo piatto per gli uomini, e cerca di fare piano, di rendersi invisibile.

Finito il pranzo, rimaniamo per qualche minuto a tavola con Ismat, che ci racconta un passo del Corano. Ha voglia di parlare e di sfogarsi e noi lo ascoltiamo. Gli altri siedono sul divano, fumano una sigaretta dopo l’altra e si scambiano qualche parola in arabo, mentre dalla porta – sempre aperta, spalancata – entra ed esce il vento palestinese, secco e ruvido sulla pelle.

  • Quindi qual è la soluzione? – siamo costretti a chiedergli.
  • Non c’è soluzione – risponde Ismat con le stesse parole usate poco prima da Ikrema. Noi ci alziamo al mattino e continuiamo il nostro lavoro, perché questo ci ha insegnato il profeta. Anche se stai per morire, pianta il seme che hai in mano: così ci hanno detto e così facciamo. Attendiamo, quindi, ma non abbiamo speranza. È dalla morte di Rabin che avremmo dovuto capirlo. In quel momento è finito tutto. Niente pace, niente Stati, tutto finito.

Mentre ci riaccompagna alla stazione dei bus, Ismat ci racconta del fratello di Ikrema, ucciso durante le proteste contro l’edificazione del Muro di Separazione. Beit Doqu è tappezzata di manifesti con il volto di questo giovane ragazzo. Ikrema non ne ha fatto cenno, ma adesso riconosco il volto nella fotografia sopra il divano, nel salotto della casa dove abbiamo pranzato. E adesso capiamo.
Dopo questo, anche Ismat smette di parlare. Se c’è una cosa che colpisce di questi uomini, così sopraffatti dall’assenza di speranza, così esausti da troppi anni di conflitto e di soprusi, è la dignità del loro silenzio, la sua nobile semantica.

Dall’altro lato del muro, i coltelli e gli spari.
Al telefono, un nostro contatto ci riferisce del dramma di oggi. Un giovane palestinese, Ahmad Zahir Fathi Ghazali, 17 anni, è stato ucciso dalla polizia israeliana nella città vecchia di Gerusalemme dopo aver tentato di accoltellare – questo viene riferito dai media interni ed esterni – due coloni. Un video, a posteriori, spiega meglio l’accaduto. Il ragazzo, fuggito in una casa del quartiere musulmano, è stato raggiunto e freddato dalla polizia mentre scappava per le scale dell’abitazione. In Israele non si arresta, si uccide – ripetono i palestinesi.
Per un po’, qualche ora al massimo, i negozi hanno chiuso; poi tutto è tornato alla normalità: i turisti che camminano e comprano oggetti ai lati delle vie, i rabbini che a sera raggiungono le sinagoghe, la quotidianità che ritorna, una pace inverosimile.