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Palestina: il racconto del presidente del Circolo ARCI Barberino

Tra la fine di marzo e i primi di aprile, una delegazione di ARCI Firenze composta dal presidente Jacopo Forconi, dal referente per le attività di Solidarietà Internazionale Manfredi Lo Sauro, il presidente del Circolo ARCI Barberino, Pietro Cardelli e la consigliera del Circolino ARCI Semifonte, Enrica Berti, si è recata in visita nei territori palestinesi dove il Comitato ha attivi i progetti di solidarietà internazionale Terra è Libertà e Teatro in campo.
Pubblicheremo ogni settimana una parte del racconto del presidente del Circolo ARCI Barberino, Pietro Cardelli, e le gallerie di foto che descrivono il viaggio.

Gerusalemme

Arriviamo a Gerusalemme forse a mezzanotte su una sorta di taxi-bus, una navetta su cui siamo saliti proprio fuori l’aeroporto di Tel Aviv. Sottofondo notturno: una musica occidentale, pubblicità luminose. Ai lati della strada iniziano a vedersi i primi ragazzi – chi con la kippah, chi senza – muoversi fra i locali della parte occidentale della città, quella ebraica, fosforescente e ricchissima. Alcuni producono degli strani versi con la voce, gutturali, poi contorcono le schiene e piegano le braccia fino a rincorrersi e a prendersi gioco l’uno dell’altro. Ci guardano come fossimo alieni, o meglio, uomini venuti da paesi inarrivabili. Nel loro giudizio c’è però anche una volontà di riconoscimento: hanno le nostre maglie, i nostri vestiti; si identificano nelle nostre marche.

Invio foto a caso, confondo i contatti: cerco di far capire ai miei che sto bene, che è tutto a posto, che a Istanbul non è successo niente. A Gerusalemme lo stesso. Mi hanno consegnato il visto senza troppe difficoltà; sono state sufficienti poche domande e qualche risposta abbozzata in inglese. Invece del timbro sul passaporto, ci hanno consegnato un minuscolo biglietto verde: accesso consentito fino al 3 aprile. Divieto di lavoro. Questo è il nostro ID per i prossimi giorni. Senza il piccolo bigliettino verdastro non ci si può muovere in Israele: di tanto in tanto ci viene richiesto da militari con il fucile ben carico.

Gerusalemme è nera e paurosa, ci sono silenzi lunghissimi e poi suoni improvvisi; la stanza del New Palm Hostel, proprio fuori la Porta di Damasco, è poco più larga del letto a due piazze che la occupa; i muri paiono rinchiudersi lentamente.

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Città vecchia

La prima giornata a Gerusalemme la dedichiamo a visitare la Città Vecchia, i suoi quattro quartieri così ben distinguibili. È venerdì, e questo implica un afflusso di musulmani ben oltre il normale, quasi 50.000 fedeli che si riversano per i viottoli del centro. La Spianata delle Moschee viene chiusa ai turisti e il via vai delle persone entro le mura è un brulicare continuo, mentre si riducono gli spazi e la massa in movimento si sposta nella direzione opposta alla nostra.

Dopo aver percorso il quartiere musulmano, ci inoltriamo nella parte cristiana della città. Qui tutto sembra condurre al Santo Sepolcro e i turisti si moltiplicano, si avvicendano, si spintonano all’ingresso. La Chiesa somiglia a un bar di stazione un po’ kitsch; è pervasa da file di fedeli o turisti che si precipitano da un altare all’altro, quasi correndo. Troviamo un po’ di pace solo nei sotterranei, dove la luce si fa più tenue e la struttura della Chiesa scava nel terreno sottostante, incagliandosi nel tufo. Qui c’è un grande silenzio e si recupera qualcosa.

Gerusalemme dentro le mura è una città occupata e militarizzata, questo capisco in breve tempo. Ogni porta di accesso è un check-point camuffato: tre o quattro gruppi di soldati, sempre giovanissimi, maschi o femmine fa poca differenza, controllano il varco con il mitra carico appeso al giubbotto, le bombe a mano agganciate alla cintura, e – come in un gioco per bambini o in un museo delle cere – di tanto in tanto si lasciano fotografare assieme a turisti, per lo più americani.

I soldati sono separati dai civili da alcune transenne con scritto police e, se e quando vogliono, fermano persone sospette e le perquisiscono fino alla vergogna.

L’occupazione israeliana si concretizza anche nei meandri della città. Non è raro, infatti, camminando nei quartieri musulmani o cristiani, trovarsi di fronte ad abitazioni cariche di bandiere bianche e blu, difese all’entrata da altri manipoli di soldati. Sono case occupate. Sui balconi, panni ad asciugare in quantità, e telecamere, sempre telecamere, puntate in ogni direzione.

Le persone che vi entrano e vi escono hanno la tranquillità di chi si sente nel giusto, e portano impettiti un rancore latente che non provano neppure a nascondere. Portano vestiti neri, tipici della loro cultura.

I mitra della polizia ebraica (polizia, soldati, militari: non si sa bene come chiamarli. La differenza è poca, se tutti imbracciano le stesse armi) non sono agganciati alla cintura né posti a tracolla; sono invece appesi sul petto, all’altezza del braccio, pronti a sparare. Un movimento più strano e improvviso di un altro, e quelli si muovono: questa è l’impressione che danno.

Pranziamo nel quartiere cristiano sulla terrazza di un ristorante di kebab e shawerma. Da quassù non solo si vedono in lontananza il Muro del Pianto e le cupole delle due moschee della Spianata, ma si può comprendere meglio il dedalo di tetti della Città Vecchia. Gerusalemme possiede una seconda vita ad un’altezza superiore, un diverso avvicendarsi di strade e di sentieri. Camminando sopra le case è infatti possibile spostarsi da un quartiere all’altro. I tetti sono piani, paralleli al terreno, e accostati uno all’altro come se non dovesse mai piovere. A separare le case, se esiste, uno spazio di pochi metri. I tetti recintati sono quelli delle abitazioni occupate. Ci giocano bambini sotto l’occhio delle telecamere.

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Monte degli Ulivi

La donna aveva la testa chinata in basso; guardava dritto il proprio cellulare e di tanto in tanto si lasciava andare a qualche risolino. Qualcosa la soddisfaceva o almeno le provocava una sensazione di leggerezza mista a sollievo che la portava al riso. Ho pensato che concepisse quello – in autobus, con le amiche, a scambiarsi fotografie e faccine su What’s App – come un momento di libertà individuale, anche se molto probabilmente c’era tutto un discorso da fare su cosa io intendessi per libertà e occorreva trovare meglio le parole o scegliere con più cura i pensieri. Che avesse o no il velo – e ce l’aveva: scuro e basso sul volto limpido – era una discriminante a cui cercavo di non far caso, ma era difficile. La forma, il significante, era così forte da farmi perdere una capacità oggettiva di decifrazione. Ero entrato in un sistema che non riuscivo né a eludere né a percepire come esterno; guardavo a queste donne obbligandomi ad accettarle come simili, ma c’era sempre qualcosa che mi disturbava. Coglievo in ogni mio atto o idea o pensiero un velo di ipocrisia. Era difficile da comprendere.

Anche le figlie della donna guardavano il cellulare, ed erano tutti super modelli delle marche più conosciute: Samsung, IPhone, Huawei, di tutto. Ogni due-tre minuti alzavano la testa con l’aria di chi si capisce (forse non erano sorelle, ma amiche), sorridevano, e poi continuavano a scrivere e a mandare faccine di vario tipo a nomi incomprensibili, scritti da destra verso sinistra e con il loro indecifrabile alfabeto. Nei selfie che si scambiavano le ragazze non portavano il velo e avevano sguardi maliziosi.

Al lato sinistro dell’autobus con il quale stavamo salendo al Monte degli Ulivi, è cominciato ad apparire il cimitero ebraico, il più antico del mondo, utilizzato ininterrottamente sul colle sovrastante Gerusalemme da millenni. Le tombe sono lastre di una pietra chiarissima, posizionate in certi casi una sopra l’altra fino a creare vere e proprie strutture marmoree verticali, tutte bianche e levigate. Visto dalla Città Vecchia, il cimitero appariva come un’immensa onda sulla collina, ma senza increspature; le tombe, tanti piccoli mattoncini rettangolari e le persone che andavano e venivano per lasciare piccoli sassi su quelle strutture, anch’essi bianchi, erano punti impercettibili, fermi o in movimento al tramonto della città santa. Camminavano su e giù nel cimitero e sembravano perdersi volutamente. Anche noi ci sentivamo così, e a poco a poco abbiamo iniziato a scendere verso la strada principale, per poi risalire fino alla Porta dei Leoni.

C’è un’unica via per attraversare il cimitero ed è completamente rivestita di filo spinato e telecamere. Ai lati un muro troppo alto per vedere oltre. In fondo al percorso, a metà fra le due colline, l’orto dei Getsemani.

Un costante senso di attesa pervade la città.