Nelle ultime pagine scritte sulla missione in Palestina dal presidente del Circolo ARCI di Barberino, Pietro Cardelli, il campo profughi di Shu’fat e la piccola oasi al suo interno: il Palestinian Child Centre, dove ARCI Firenze, con il contributo del Fondo Otto per Mille della Chiesa Valdese, ha realizzato il progetto Teatro in Campo: spazio dedicato alle attività teatrali.
Shu’fat
Shu’fat è l’unico campo profughi all’interno di Gerusalemme, circondato da un muro presidiato alto quattro o cinque metri. L’unico accesso è un check-point controllato dagli israeliani. Qui, in un chilometro quadrato di spazio, vivono ufficialmente 30.000 persone, ma in realtà – a sentire ciò che ci raccontano i giovani del Palestinian Child Center – almeno il doppio. Shu’fat è uno spazio privo di autorità e di controllo: le dinamiche interne sono in mano al potere delle gang, mentre l’assenza di ogni raccolta centralizzata dei rifiuti determina una situazione oltre i limiti della vivibilità. Le strade, eccetto la via principale dove si concentrano i pochi e scalcinati negozi, sono lunghe e strettissime: le case, costruite piano sopra piano, anno dopo anno, si sfiorano appena, e gli interstizi rimasti sono una discarica a cielo (poco) aperto. I tetti sono congiunti da una miriade di fili e cavi, e i bambini giocano scalzi in queste strade, fra i vetri spezzati e i sacchi dei rifiuti abbandonati.
Nel campo di Shu’fat le persone sono suddivise in base all’ID che riescono a ottenere – da un lato chi possiede la blue card (possibilità di uscire in certi orari), dall’altro chi la green card (reclusione totale all’interno del campo) – e non hanno cittadinanza. Alcuni, i più fortunati, riescono a ottenere un passaporto giordano o palestinese; per gli altri Shu’fat diviene una prigione senza autorità, una vita stretta fra quattro altissime mura e filo spinato, violenza e telecamere.
A Shu’fat non ci sono turisti.
Nonostante la pressoché completa assenza di servizi all’interno del campo, a partire dal gennaio 2017 i suoi abitanti sono costretti a pagare una forma di tassazione all’autorità israeliana.
Siamo qua per seguire il nostro secondo progetto in Palestina, Teatro in Campo, cofinanziato dal Fondo Otto per Mille della Chiesa Valdese, e destinato alla costruzione di uno spazio dedicato alle attività teatrali all’interno del Palestina Child Center, unica struttura dell’intero campo dedicata ai giovani, dai più piccoli fino ai ragazzi di sedici anni. Il Centro è una vera e propria “Casa del Popolo mediorientale”, dove vengono svolte varie attività: teatrali, musicali, educative, sportive. Uno spazio polifunzionale interamente riservato ai giovani e gestito con grande passione da Merwat, Moody Houma e gli altri ragazzi palestinesi. Alcuni di loro, come Houma, vivono all’interno del campo; gli altri, ogni giorno, sono costretti ad attraversare più e più volte il check-point israeliano.
Tutte le attività svolte nel Palestina Child Center sono gratuite.
Il campo di Shu’fat è stato aperto nel 1965 e si è riempito in brevissimo tempo, in particolare dopo e durante la guerra dei sei giorni, scoppiata nel 1967 nel momento in cui l’Egitto chiuse il Golfo di Aqaba alle navi israeliane, che non tardarono a rispondere ricorrendo alla forza. Durante la guerra, Israele occupò il Sinai, Gaza, la Cisgiordania e il Golan, costringendo i palestinesi a rifugiarsi fuori dalle loro terre o a Gerusalemme, reclusi nel campo.
Arriviamo a Shu’fat guidati da Merwat, una donna palestinese che lavora nel Palestinian Child Center e che ci presenta ai ragazzi – tutti molto giovani – che lo gestiscono. Il teatro costruito con il nostro aiuto si staglia al centro del piazzale, fulcro della struttura. Attorno si trovano il kindergarden e le varie stanze, ognuna dedicata ad una specifica attività. Prima di accompagnarci a vedere il campo, i ragazzi ci mostrano il Centro, e mentre facciamo colazione assieme a loro mangiando humus, pane arabo e falafel, ci raccontano del lavoro di questi anni, di come la situazione stia migliorando e i bambini arrivino al Palestina Child Center ogni mese sempre più. Il numero dei volontari sta crescendo e due sono i progetti per il futuro a cui stanno pensando: da un lato, costruire sul tetto della struttura un campo da calcetto circondato da un giardino pensile, e poi collegato alla scuola di Shu’fat tramite un ponte sopra la strada, da tetto a tetto; dall’altro, ristrutturare ed aprire un nuovo Centro per ragazzi nella zona più a sud del campo. Questi giovani hanno una grande voglia di fare, una positività e un ardore che confortano.
Moody Houma
Houma è un ragazzo di vent’anni nato nel campo di Shu’fat. Qui vive ed è cresciuto. È alto e imponente, ma con una voce calda e gentile. Gira con un cappellino newyorchese e una giacca da rapper americano; quando parla in inglese spesso accelera troppo e si mangia le frasi; ripete spesso “like…like…you know”. È un produttore musicale e ha costruito lo studio di registrazione del Palestinian Child Center, dove ci conduce appena arriviamo e ci fa ascoltare un pezzo suonato e mixato assieme ai ragazzi a cui insegna. Houma tiene corsi di musica, mixaggio e produzione; suona la chitarra, il basso elettrico, la batteria e il piano. È anche un rapper, e si compiace nel contaminare lo slang e la cadenza statunitense con sonorità arabo-mediorientali; ricerca nella musica un connubio fra culture diverse. Stringiamo subito amicizia.
Mi lascia vedere la sua carta d’identità senza cittadinanza, e mi dice che di tanto in tanto non sa bene cosa pensare e che si sente un fantasma, un essere non riconosciuto.
Poi però cambia idea; ribadisce le sue origini palestinesi. Il nonno, nel 1948, alla fondazione dello Stato di Israele, durante le prime conquiste degli occupanti, era fuggito a Gerusalemme, dove pensava di trovare pace e tranquillità. Qualche decennio più tardi, alla fine degli anni Sessanta, è stato invece il padre a fuggire, o meglio, ad essere deportato, costretto dalla polizia israeliana a trasferirsi nel Campo di Shu’fat. Qui Houma è nato e si chiede quale sarà il prossimo esilio, verso quale terra e quale paese sarà condotto dallo straniero, dall’occupante – come lo chiama lui.
Mi racconta anche di quando era un bambino e poi un adolescente e della violenza che permea la vita nel campo in ogni momento della quotidianità, dentro e fuori la scuola: il bullismo, gli scontri fra gang, la forza, i continui scontri con i militari israeliani e l’aggressività come unica via per sopravvivere e non lasciarsi sopraffare.
Mi racconta di alcuni suoi amici di cui non sente più parlare; molti sono fuggiti, sono morti negli scontri o si sono arruolati nelle forze estremiste di questi luoghi. Ne parla con tranquillità, ma di tanto in tanto la sua voce si incrina e si inasprisce; poi torna a sorridere. La musica lo ha salvato – almeno a quanto dice; lo ha allontanato dalla strada, e per questo cerca di farci capire con insistenza l’importanza di un centro per i ragazzi come il loro, unico luogo di ritrovo quando finisce la scuola. Prima di andarsene a uno dei suoi corsi, ci parla ancora un po’ dei suoi allievi migliori, del vocione di Ahmed, dodici anni, ma che nel rappare ne dimostra quaranta. Il suo idolo è Jay Z.
Usciamo da Shu’fat nel pomeriggio, sul solito autobus israeliano. Al check-point ci fanno scendere tutti e uno per uno camminiamo verso due militari con il mitra spianato. Quando tentiamo di avvicinarci tutti e quattro insieme ci fermano immediatamente. Capisco che un gesto improvviso o troppo rapido non sarebbe perdonato. Ci controllano, uno a uno, l’ID che abbiamo ricevuto all’aeroporto di Tel Aviv, poi ci lasciano andare. Il documento dei ragazzi palestinesi, i più giovani, viene invece sequestrato per alcuni controlli più approfonditi. Aspettiamo sul bus per una buona mezz’ora, fino a quando un militare li riporta ai rispettivi possessori.
Mentre ci allontaniamo, vedo un ragazzo trascinato in un gabbiotto da due soldati.
Tornando a casa
Il viaggio di ritorno è interminabile. Di nuovo la navetta fino a Tel Aviv, i continui controlli all’aeroporto – setacciano gli zaini, accendono i cellulari, sfogliano le pagine dei libri una a una, pongono domande, ripetono domande, perquisiscono, slacciano, prelevano, gettano – di nuovo lo scalo a Istanbul, le attese, il passaggio dei passaporti fra le mani degli operatori delle compagnie, salire e scendere dagli aerei, ritirare i bagli, controllare i propri oggetti.
A Bologna arriviamo dopo quasi un giorno di viaggio: è il primo pomeriggio di un lunedì assolato. Fa molto caldo oggi, quasi come la prima giornata a Gerusalemme quando per la prima volta abbiamo attraversato la Porta di Damasco. Ciò che è cambiato – e questo va detto, non possiamo tirarci indietro – sono l’aria: una pace là innaturale, qui indifferente, scontata; e il senso di attesa, la tragedia sempre imminente, la violenza strisciante in ogni cosa, subdola, per le vie della Città Vecchia o oltre il Muro di Separazione. Sembra di essere precipitati in un mondo differente, poche ore di volo sono state abbastanza.
Lungo l’A1 Firenze-Bologna, al posto delle montagne, rivedo le colline di Beit Doqu, le colonie israeliane incombere sulle gallerie.